Si chiude oggi, con l’ultimo esame sostenuto
dall’ultima allieva del corso di Restauro, la mia esperienza settennale di
insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Lecce (da docente a
contratto, sia ben chiaro, non sia mai ci abituassimo all’idea di qualcosa
diverso dall’eterno precariato).
Esperienza iniziata per caso, con un bando reperito
fortuitamente sul sito dell’URP del mio comune e la domanda inviata senza
alcuna speranza, seguita da una partenza successiva per l’ennesimo “viaggio
della speranza” nel centro-nord. Al punto che, quando mi sono sentita chiamare
al cellulare perché il mio curriculum era risultato vincitore della selezione,
ero a Bologna, nell'azienda per cui lavoravo all'epoca, e mi ero totalmente dimenticata di aver presentato quella
domanda.
Ma non ho avuto un attimo di esitazione, ho confermato la mia volontà
di intraprendere questa avventura, e sono iniziati i tour de force dei weekend
con levataccia alle 5 di mattina per prendere l’aereo che mi avrebbe portato a
Brindisi e da lì il passaggio per arrivare a Lecce, dove mi attendevano ogni
volta almeno 4 ore filate di lezione.
All’inizio l’impatto è stato stranissimo: si
trattava di un corso dell’ultimo anno del biennio di specialistica, e il primo
anno c’erano degli allievi molto più grandi di me, gente di mezz’età, per cui
mi pareva strano non essere io quella dall’altra parte della cattedra. Chi mi
dava del “lei”, chi addirittura del “voi”. Mi veniva quasi da ridere…
Ma l’entusiasmo e la voglia di fare hanno prevalso
su ogni dubbio e il corso ha preso subito forma: dato che la mia materia,
“Marketing e management dei beni culturali”, era stata inserita nel corso (all’epoca sperimentale) di Restauro per
consentire agli allievi un approccio concreto al mondo lavorativo, non ho avuto
dubbi sull’impostazione fortemente pratica da dare allo stesso.
È iniziato così un flusso ininterrotto di pensieri,
energie, idee e progetti, a volte più a volte meno interessanti, fattibili,
realizzabili, tutti però con in comune la voglia di fare e di provare a
realizzare qualcosa di concreto, a prescindere dal fatto di dover poi sostenere
un esame di profitto.
I ragazzi che hanno frequentato il mio corso sono
stati, nella maggior parte dei casi, estremamente motivati: d’altronde non fai
l’accademia se non hai almeno una forte motivazione che ti spinge ad
intraprendere quella strada.
Quelli che avevano già avuto esperienze di
valorizzazione culturale spesso sono stati quelli che più mi hanno deluso (se
così si può dire) perché hanno sottovalutato l’aspetto di ricerca e analisi di
contesto che era alla base del corso. Fortunatamente sono stati pochi, mentre
la maggior parte, del tutto o quasi digiuna da queste esperienze, si è
fortemente impegnata e mi ha dato grandi soddisfazioni: una delle frasi più
belle è stata pronunciata da un allievo che, incontrandomi dopo qualche tempo,
mi ha detto “sai, il metodo che ci hai
insegnato è utilissimo in tutte le situazioni progettuali che ci troviamo ad
affrontare ora”. Una grande soddisfazione.
Ripensandoci, forse a volte sono stata "troppo buona", ho dato spesso voti alti,
ma non potevo fare diversamente, perché in tutti i casi c’era alla base un grandissimo
impegno e una fortissima motivazione. Nei pochi, pochissimi casi in cui questo
non è avvenuto è stato un vero cruccio personale, perché, non essendoci poi
chissà quanta differenza d’età tra me e questi ragazzi, il rapporto si è sempre
molto basato su una forma di empatia e di condivisione di sogni e speranze,
quindi probabilmente è mancato qualcosa anche nel mio modo di pormi. O chissà,
a volte capita e basta.
Senza fare torto a nessuno, non posso non ricordare
alcuni personaggi: chi, dopo un’esperienza Erasmus e avendo frequentato solo un
paio di lezioni (le ultime peraltro), riuscì a sostenere brillantemente l’esame
all’appello di luglio; chi, sull’onda dell’entusiasmo, ha provato
immediatamente a sottoporre il proprio progetto agli enti pubblici di
competenza; chi, pur provenendo da un’altra nazione, è riuscita a scrivere un
progetto in un italiano perfetto; chi ha realmente tirato su un’associazione e
adesso realizza eventi; chi, spinto dall’amore per la propria città, si adopera
affinché non cada a pezzi; chi si è talmente appassionata di questa materia da
approfondirla ulteriormente in un master (e speriamo che non mi maledica prima o
poi per questo!)…
E come non ricordare i miei tre tesisti? Su tutti,
simbolicamente, quella che è stata proclamata dottoressa con in braccio la sua
bimba di pochi mesi dopo una discussione che definire brillante sarebbe poco.
A fronte di tutti questi elementi positivi, vorrei non
dover citare le infinite peregrinazioni nei corridoi alla ricerca di un’aula
dove fare lezione, la mancanza di attrezzature, ivi comprese quelle
informatiche, poche e sempre prenotate. Ma tant’è…
Non posso non dire, inoltre, di aver visto l’entusiasmo
di questi ragazzi appannarsi col passare degli anni, sempre più alle prese
con problemi burocratici e difficoltà nell’approcciarsi con il mondo del
lavoro: li ho visti, una volta laureati, "mettersi la strada sotto i piedi" e
andare dovunque inseguendo un cantiere di lavoro. E tornare sconfortati dalla costante e
continua precarietà della condizione di lavoratori della cultura, di quelli che
si sporcano le mani mentre cercano di mantenere intatto il nostro patrimonio
artistico, quello per cui siamo famosi nel mondo intero.
Perché i miei ragazzi sono colti ma sono anche pragmatici:
non sono choosy perché loro hanno imparato un mestiere, ed è un mestiere che
tra colori, solventi, acidi, pennelli, pietre e scalpelli, ti porta a diretto
contatto con la materia, non quella (o non solo quella) di cui sono fatti i sogni, ma quella di cui è fatta la nostra storia.
Il problema è, come sempre, che questo mestiere non
ha il giusto riconoscimento, come pressoché tutte le professioni della cultura, in
questo paese assurdo dove non si valorizzano le eccellenze.
Ecco, posso affermare con certezza che questi ragazzi sono
delle eccellenze!
E tra qualche giorno molti di loro conseguiranno questa laurea, che spero possa servire per valorizzare le loro capacità e le loro
aspettative. Se guardo il mondo attraverso i loro occhi, ancora oggi non posso
non pensare che una via d’uscita, un futuro migliore, ci possa essere.
A loro auguro di superare
brillantemente questa e tutte le prove future che la vita gli riserva,
mantenendo sempre viva la luce negli occhi.
In bocca al lupo!